La guerra greco-ostrogota
La guerra greco-ostrogota si inserisce nel contesto della riconquista dell’Impero d’Occidente promossa da Giustiniano. La prima fase della guerra si protrasse fra 535 e 540: l’esercito bizantino, guidato dal generale Belisario, conquistò Ravenna e respinse i Goti oltre il Po. Dopo aver cercato di corrompere Belisario con la corona d’imperatore d’Occidente, i Goti ripresero l’offensiva nel 542 sotto la guida del re Totila che cercò di mobilitare contadini e schiavi, ma i Bizantini, ora al comando di Narsete, ebbero ancora la meglio, uccisero Totila e il suo successore Teia e conclusero definitivamente la guerra quando riuscirono a piegare la resistenza di alcuni gruppi stanziati sull’Appennino, nel 555.
Nei due anni precedenti, tra l’altro, l’Italia era stata saccheggiata da gruppi di Franchi e Alemanni chiamati in soccorso dai Goti. Vent’anni di guerra avevano aggravato il degrado in cui versava la penisola e il governo bizantino, nonostante il rinnovamento amministrativo basato sulle disposizioni della prammatica sanzione (554), non risollevò la situazione: l’Italia venne divisa in distretti governati da uno iudex e da un dux, rispettivamente per l’amministrazione civile e per quella militare; attraverso un capillare apparato fiscale, venne richiesto il pagamento di tasse arretrate e allo stesso tempo vennero ridotti i salari dei soldati e le distribuzioni di viveri, dato che l’impero aveva bisogno di risorse per la politica espansionista. Anche per questo non si riuscì a far fronte all’invasione longobarda di 568.
I Bizantini mantennero comunque gran parte della Romagna, con Ravenna, sede dell’esarca, e la Pentapoli, le 5 città sulla costa (Rimini, Pesaro, Fano, Senigallia e Ancona). Questa zona era collegata, attraverso una fascia di terra che passava per Perugia, alla costa tirrenica dove il dominio bizantino comprendeva il ducato di Roma e quello di Napoli, all’incirca da Civitavecchia ad Amalfi. Bisanzio controllava inoltre le isole, parte di Calabria e Puglia, il litorale veneto e l’Istria. Il principale problema di questi territori era quello della difesa: l’impero, impegnato sul fronte orientale, non poteva provvedervi, perciò emerse un’organizzazione locale che fece gradualmente scomparire la separazione tra cariche civili e militari e portò gli aristocratici ad assumere impegni militari corrispondenti alla base economica di ciascuno. I funzionari e i militari provenienti da Bisanzio si radicarono nelle realtà locali, fondendosi con la vecchia aristocrazia: da questa convergenza nacquero sentimenti autonomistici, con conseguenti rivolte contro Bisanzio. Il fenomeno era favorito anche dalla centralità della Chiesa: secondo l’assetto amministrativo bizantino i vescovi avevano una funzione di controllo sui funzionari pubblici e ciò portò la società a coordinarsi intorno alla chiesa locale. La maggiore conseguenza fu che Roma, nella seconda metà del 700, si liberò dalla dominazione bizantina sostituita dal potere papale, con la protezione dei Franchi. I pontefici riuscirono, infatti, a stabilire un’effettiva egemonia sul Lazio, legandosi ai membri dell’aristocrazia romana e della burocrazia bizantina tramite la concessione in enfiteusi* di parti del vasto patrimonio di San Pietro.
Così il potere del Duca bizantino si andava indebolendo, mentre cresceva l’autorità dei Pontefici, anche per la loro capacità di opporre resistenza alla pressione longobarda. È significativo l’episodio di Liutprando che si lasciò convincere da papa Gregorio II a rinunciare alle terre conquistate nel ducato romano e restituì il castello di Sutri (Viterbo) non all’autorità bizantina, ma ai beatissimi apostoli Pietro e Paolo. Era il 728 e la donazione aveva un importante valore politico, perché mostrava il riconoscimento della sovranità papale a discapito della autorità bizantina.
*L’enfiteusi era, in età romana, un tipo di contratto a lungo termine volto a valorizzare delle terre date in affitto, e in seguito venne utilizzato per stabilire, anche in perpetuo, rapporti di tipo clientelare fra l’ente ecclesiastico e gli esponenti dell’apparato politico e militare.
I Longobardi
I Longobardi erano un popolo originario della Scandinavia che si stanziò in Pannonia con l’assenso dell’Impero Romano; a differenza dei Goti non si erano avvicinati alla cultura latina, erano rimasti fedeli alle loro tradizioni e quando arrivarono in Italia nel 568 alla guida di re Alboino imposero il loro regno come una dominazione straniera senza transizione con i poteri locali e senza il principio dell’hospitalitas. Un’importante testimonianza è rappresentata dal monaco longobardo Paolo Diacono, che, accolto alla corte di Carlo Magno, scrisse una Storia dei Longobardi. Questi avevano una società fortemente militarizzata, solo chi poteva combattere godeva di diritti e i guerrieri erano divisi in gruppi, le fare, con a capo i duchi. Il potere monarchico era molto limitato, tant’è che dopo la morte di Alboino e del successore e Clefi, i duchi non elessero un nuovo re per i successivi dieci anni, dal 574 al 584 ci fu un’anarchia militare. Inoltre i longobardi si muovevano con grande autonomia, senza un piano unitario, perciò non conquistarono l’intera penisola, dando inizio alla divisione politica dell’Italia. I territori bizantini separavano i domini del Nord Italia dai ducati di Spoleto e di Benevento. A partire dagli ultimi anni del 500 si cercò di dare al potere monarchico un fondamento e un assetto centralizzato con l’aiuto dell’episcopato e quindi della civiltà romana: era un processo caratteristico dei regni romano-germanici, ma nel regno longobardo trovò forti resistenze interne, specialmente da parte dei duchi di Spoleto e Benevento che probabilmente rifiutarono la richiesta fatta dal re Autari ai duchi di cedere metà delle loro terre alla corona. I territori acquisiti dalla monarchia erano gestiti da dei funzionari detti Gastaldi che dovevano anche controllare e limitare il potere dei duchi. Inoltre i re si avvalsero della collaborazione dei Gasindi che erano legati alla corona da vincoli di fedeltà personale.
Il problema del rapporto con la Chiesa cattolica divenne centrale durante il regno di Agilulfo che successe ad Autari nel 590, lo stesso anno in cui iniziò il pontificato di Gregorio Magno. Quando arrivarono in Italia, i Longobardi si erano da poco convertiti all’arianesimo; non cercarono un dialogo con la Chiesa cattolica e in generale con la popolazione romana, che si ritrovò in una posizione di inferiorità politica e giuridica. Soprattutto nelle zone a più forte insediamento longobardo, come la Lombardia, gran parte dei patrimoni vennero espropriati, sia quelli privati che quelli ecclesiastici, tant’è che il metropolita e l’alto clero di Milano ripararono a Genova, e molti vescovadi vennero abbandonati dai loro titolari: Aquileia, Siena, Cuma e Capua. Quando anche i Longobardi si trasformarono in proprietari terrieri, sentirono la necessità di darsi un ordinamento politico più stabile per difendere dai Bizantini i beni acquisiti, quindi si rivolsero al modello romano e si aprirono alla Chiesa. Gregorio Magno si impegnò molto nella conversione degli Ariani e riuscì a stabilire contatti con la corte reggia di Pavia, grazie alla regina cattolica Teodolinda. Tuttavia, anche dopo il battesimo del re Adaloaldo, i Longobardi non si convertirono in massa, molti duchi rimasero legati alle loro tradizioni: si profilano due schieramenti, uno filocattolico, l’altro nazionalista.
Uno dei re ariani era Rotari, duca di Brescia, che con il suo editto del 643, fece mettere per iscritto in latino delle norme longobarde che dovevano mediare i conflitti sociali e mettere fine alle faide. L’editto mostrava l’interessamento di Rotari alla concezione Latina del potere, ma le norme riguardavano solo la popolazione longobarda mentre quella latina rispettava il Corpus iuris civilis di Giustiniano, secondo il principio della personalità del diritto che permetteva la coesistenza di diversi sistemi giuridici.
Un grande re cattolico fu invece Liutprando che cercò di superare la divisione etnica tra longobardi e romani, inserendo questi ultimi nella tradizione giuridica dei dominatori e completando la conversione al cattolicesimo del suo popolo. È possibile che ritenesse di avere il sostegno del papato quando decise di completare la conquista dell’Italia e, tra l’altro, in quel periodo (primi decenni del 700) Roma si stava allontanando da Bisanzio per via della controversia iconoclasta. I Longobardi invasero quindi l’Esarcato arrivando fino a Roma dove Gregorio II appellandosi al sentimento religioso di Liutprando, lo convinse a non prendere la città e a rinunciare anche alle terre del ducato romano, che vennero restituite all’autorità bizantina, ad eccezione del castello di Sutri, oggetto della donazione del 728 ai beatissimi apostoli Pietro e Paolo. Questa donazione è stata anche riconnessa alla nascita del potere temporale del Papa, ma in realtà era una delle tante che venivano fatte alla chiesa. Aveva però un valore politico, perché rappresentava il riconoscimento della sovranità esercitata già di fatto dal Papa, che, in cambio avrebbe dovuto legittimare il potere longobardo. Tuttavia in Italia, nonostante la fine della divisione etnica e la provenienza di molti vescovi dall’aristocrazia longobarda, non si affermò quelle legame tra potere ecclesiastico e potere regio che stava alla base dei regni dei Visigoti e dei Franchi. La causa si può rintracciare nell’opposizione del papato all’inserimento di Roma in un regno a carattere nazionale che avrebbe anche affievolito quella vocazione universalistica della Chiesa di Roma. Perciò, quando lo slancio espansionistico dei re Astolfo e Desiderio divenne implacabile, papa Stefano II chiede aiuto ai Franchi.