Giambattista Vico – Dal metodo degli studi alla scienza nuova

ARGOMENTI: Vico, vita e opere, Metodo degli studi del nostro tempo, Sull’antichissima sapienza degli italici, Scienza nuova, teoria dei ricorsi storici, logia ed estetica, la questione omerica.

VITA E OPERE: Vico nacque a Napoli nel 1668, da una famiglia umile; studiò per qualche tempo presso i gesuiti, ma la sua formazione fu per lo più da autodidatta. Trascorse nove anni nel castello di Vatolla, come precettore, fino al 1695, quando tornò a Napoli e, componendo poesie, epigrafi e dissertazioni erudite a pagamento, ottenne la fama di latinista e letterato. Nel 1699 riuscì a vincere la cattedra di eloquenza dell’Università di Napoli, ed entrò a far parte dell’accademia reale o di Medinaceli. Compose alcune orazioni come discorsi inaugurali degli anni accademici; la più importante è la settima intitolata Il metodo degli studi del nostro tempo e pubblicata nel 1709. Nel 1710 uscì L’antichissima sapienza degli italici, in latino, e nel 1725 i Principii di una scienza nuova d’intorno alla comune natura delle nazioni; modificò e perfezionò questo testo per il resto della sua vita e ne pubblicò due nuove edizioni: la Scienza nuova seconda, nel 1730, e la Scienza nuova terza, nel 1744. Morì in quello stesso anno.

METODO DEGLI STUDI DEL NOSTRO TEMPO (1709): è la settima delle orazioni scritte da Vico per inaugurare gli anni accademici dell’Università di Napoli. Vico si pone in difesa della tradizione umanistica ed in contrasto con il razionalismo cartesiano, poiché teme che gli uomini, concentrando gli studi sulla matematica, trascurino le arti pratiche come la giurisprudenza, la retorica, la storiografia che, pur non costituendo un sapere scientifico, dal momento che le res humanae erano considerate troppo contingenti e mutevoli per poter essere conosciute in modo esatto e razionale (accanto alle scienze naturali non si erano ancora affermate quelle umane) sono tuttavia molto utili: l’eloquenza e la retorica, ad esempio, trasmettono alla moltitudine la persuasione al dovere, la topica (la teoria dei luoghi comuni) insegna a non trascurare nessun aspetto della realtà, poiché riguarda cose vere, ma anche cose verosimili e false.

Vico sottolinea il valore della fantasia e della memoria, del senso comune, che nasce dal verosimile, della poesia e dell’ingegno, inteso come facoltà produttrice di metafore (tutti aspetti della realtà umana trascurati dal metodo scientifico). Vico rifiuta, quindi, l’idea di ridurre l’intera realtà a leggi matematiche, ed inserendosi nella controversia fra empiristi e razionalisti, fra sperimentalismo baconiano e deduttivismo cartesiano, esprime una preferenza per l’indirizzo sperimentale induttivo. Non accetta però l’atteggiamento aggressivo nei confronti della natura e l’idea di usare il sapere per sottometterla e trasformarla. La realtà naturale è governata dalle leggi imperscrutabili di Dio, perciò la fisica non deve essere rivolta al dominio del mondo, ma alla comprensione dell’imperfezione e della finitudine dell’uomo. Questa concezione pone Vico al di fuori degli orizzonti della scienza moderna; il suo misoneismo si trasformerà in seguito, in una visione drammatica della storia umana.

SULL’ANTICHISSIMA SAPIENZA DEGLI ITALICI (1710): anche qui Vico difende la tradizione umanistico-rinascimentale e critica i cartesiani. Inoltre aderisce alla tesi, presente nei Platonici del rinascimento, nella tradizione magico-ermetica, e in Bacone, di una sapienza antica andata dimenticata e cerca di ricostruire questa sapienza, appartenuta ad una civiltà di origine ionico-egizio-etrusca, affermatasi in Italia prima della nascita della cultura greca, attraverso un’indagine filologica ed una ricerca sulle etimologie. Fonda, così, le sue tesi filosofiche, non sulla ratio, ma sull’auctoritas, quindi sull’antichità che, in quell’epoca, era ritenuta la base del sapere riguardante l’uomo. Le tesi principali sono tre:

  1. La critica del cogito cartesiano;
  2. La dottrina del verum-factum;
  3. Il carattere arbitrario e convenzionale della matematica.

Vico immedesimandosi in uno scettico radicale, osserva che il suo dubbio non può essere vinto dal cogito, poiché non dubita di esistere o di avere coscienza di esistere, ma nega che la sua coscienza sia scienza: infatti, avere coscienza immediata di qualcosa non significa conoscerla (posso ad esempio, essere cosciente del fatto che sto leggendo un libro, ma non per questo conoscerò il suo contenuto o il motivo per cui lo leggo).

Vico ritrova il criterio di verità, non nell’evidenza immediata, e nella chiarezza e distinzione delle idee, ma nella conversione del vero nel fatto (i termini latini verum e factum, sono infatti sinonimi, ed in ciò Vico vede una verità posseduta dall’antica civiltà italica): si può avere coscienza piena di una cosa solo facendola, perciò l’unico che può conoscere veramente l’universo è il Creatore, la cui intelligentia comprende ogni aspetto della realtà, le sue cause ultime e le regole che hanno presieduto alla sua creazione. Vico contrappone all’intelligentia divina la cogitatio umana, che è limitata ed imperfetta e può conoscere solo il mondo fittizio creato dall’uomo, quello della matematica: l’uomo determina convenzionalmente gli enti matematici e loro regole, solo in quest’ambito può avere una conoscenza piena e certa. Diversamente da quanto pensava Galileo, la matematica non rivela le leggi della natura e dell’universo, ma viene intesa da Vico come il risultato della capacità dell’uomo di trarre un’utilità dal limite costitutivo della sua mente, quello che gli impedisce di conoscere tutto ciò che non è artificiale.

Anche Hobbes aveva sostenuto una tesi simile (l’uomo conosce scientificamente solo ciò di cui è la causa), ma Vico ne trasse conseguenze tali da fondare una nuova scienza, quella della storia.

PRINCIPI DI UNA SCIENZA NUOVA D’INTORNO ALLA COMUNE NATURA DELLE NAZIONI (1725): la riflessione    sulla matematica portò Vico a superare lo scetticismo sulle capacità conoscitive umane, espresso nelle prime due opere trattate. Vico rintracciò la facoltà che produce le verità matematiche nell’immaginazione, quindi estese questa verità, propria dei prodotti della fantasia, dai soli enti matematici, all’intera realtà storico-sociale e stabilì il criterio del verum-factum nel mondo contingente fatto dagli uomini, alla cui base trovò un principio di intelligibilità, gettando così le basi della storia come scienza. Secondo Vico, i fatti umani sono accomunati da un aspetto caratteristico: gli uomini agiscono guidati da rappresentazioni, immagini create da loro stessi o ereditate da altri. Perciò l’immaginazione è il principio che spiega l’esistenza dei motivi, degli scopi e dei disegni in base ai quali gli uomini agiscono; è quindi nella mente umana che si trovano i principi universali ed eterni della scienza nuova, la quale si configura come un insieme di storia e filosofia dell’umanità: Vico cerca di definire una storia ideale eterna, di determinare le leggi e l’ordine secondo i quali i fatti umani si susseguono nel tempo. Nello stesso tempo, la storia deve essere scienza del particolare, del dato e del certo, di cui si occupa la filologia, e scienza dell’universale e del vero, di cui si occupa la filosofia. La filologia, in particolare, ha il compito di accertare la verità della filosofia, la quale, nei limiti del certo, deve scoprire le leggi ideali e necessarie che si nascondono nella contingenza, sostituendo al “fu, è e sarà” della descrizione empirica, il dovette, deve, e dovrà” della conoscenza scientifica.

Nei Principii, Vico abbandona la tesi della sapienza superiore degli antichi per avvicinarsi al primitivismo, una teoria di origine epicurea, diffusa dal De rerum natura di Lucrezio, secondo cui i primi uomini erano stati poco più che bestie: alle radici della storia c’erano l’irrazionalità e l’istinto dei “bestioni”. Questa tesi, sostenuta anche da alcuni libertini, rischiava di attirare la censura ecclesiastica, ed anche per evitare questo pericolo, Vico adotta la distinzione tra Ebrei e Gentili: poiché tutta la storia dei primi è stata assistita da Dio, il primitivismo riguarda solo i secondi. Inoltre Vico sottolinea il ruolo della Provvidenza nella storia, non esclude l’esigenza di una forza che dia un senso ed una direzione al processo storico e per questo si allontana dalle concezioni libertine.

L’emergere della civiltà dalle barbarie ed il suo sviluppo, seguono un ordine che, articolato in tre fasi, corrisponde allo sviluppo della mente umana: l’età degli dei corrisponde alla fase del senso, l’età degli eroi alla fase della fantasia e l’età degli uomini alla fase della ragione. Ogni fase rappresenta una totalità organica in cui tutti gli aspetti della vita umana (istituzioni civili, organizzazione sociale, economia, linguaggio etc.) sono connessi.

Sebbene alle origini dell’umanità non ci sia una “sapienza riposta”, c’è tuttavia una “sapienza poetica” che trova espressione nei miti; questi venivano interpretati come allegorie volte a rappresentare verità razionali, ma Vico rifiuta questa interpretazione, poiché considera la ragione successiva al senso ed alla fantasia, e considera i miti come espressioni spontanee e naturali di una mentalità magica; nel mito prende forma l’immaginazione collettiva dei popoli primitivi che, ancora privi di razionalità, si sentivano immersi in un mondo magico dove i fenomeni naturali, apparivano come manifestazioni di forze soprannaturali, come segni divini, che Vico definisce “parole reali”; dall’imitazione di questi segni si sarebbe originato il linguaggio. Vico contesta il presupposto razionalistico dell’interpretazione (risalente ad Aristotele) del linguaggio, come una convenzione arbitraria: se così fosse, il linguaggio sarebbe nato da un’operazione dell’intelletto, ma i primi uomini non erano razionali; è, perciò, più plausibile che essi abbiano reagito ai cenni divini con cenni corrispondenti, instaurando così un rapporto naturale, non convenzionale, tra i loro segni e le cose designate. Il parlare muto, per cenni, ha preceduto il linguaggio fonico, così come la rappresentazione pittorica ha preceduto la scrittura alfabetica; analogamente l’uso metaforico della lingua ha preceduto quello letterale e la metafora, prima di essere un artificio retorico, è stata una forma espressiva naturale e spontanea.

LA TEORIA DEI RICORSI STORICI: secondo questa teoria, la storia umana ha un andamento ciclico e al termine di un corso della civiltà vi è una nuova barbarie; l’affermazione della ragione e la trasformazione della barbarie in civiltà, non sono mai definitive. Vico ripropone la visione ciclica della storia, che troviamo, ad esempio in Polibio e in Machiavelli, soprattutto per spiegare il corrompersi della ragione e la tensione tra barbarie e civiltà che caratterizza la storia umana, di cui Vico ha una visione drammatica, sebbene non escluda l’intervento della Provvidenza.

La nuova barbarie è rappresentata dal Medioevo, nel quale si ripetono le esperienze giuridiche, socio-politiche e culturali del primo periodo della storia umana: ritornano, ad esempio, il linguaggio muto, con l’uso degli stemmi, ed Omero nella figura di Dante; questo periodo non presenta tuttavia le caratteristiche di spontaneità ed immediatezza della prima età degli dei, ma viene inteso come un regresso.

Estetica e logica: Vico si è dedicato molto anche alla riflessione sull’arte, soprattutto per il fatto che l’arte è l’espressione dell’immaginazione, il principio che sta alla base della realtà umana, e ci consente, per esempio, di capire come pensavano i primi uomini: essi avevano infatti una logica poetica, che non contemplava l’astrazione concettuale; la mente umana, perciò, ordinava l’esperienza, non mediante universali intelligibili, ma creando universali fantastici, immagini o caratteri poetici che collegavano diverse esperienze: Giove, ad esempio, era un carattere poetico che personificava il cielo e tutto ciò che vi era connesso. Il termine “poetico” si riferisce, quindi, al senso della parola greca pòiesis, poiché l’universale fantastico è il frutto di un processo creativo e non di un processo di astrazione; quest’ultimo si affermò in un secondo momento, producendo un ordine logico-razionale che agli uomini sembra essere sempre esistito, poiché sono affetti da un pregiudizio razionalistico che Vico chiama “boria dei dotti”.

Nella fase razionale dello sviluppo umano, l’arte può far rivivere la logica poetica e farci comprendere l’antica mentalità mitica, grazie ad una analogia: sia i caratteri poetici, sia i personaggi dell’arte, si caratterizzano per aspetti contraddittori, hanno un volto duplice, ambivalente, non rappresentano caratteristiche astratte, cioè separate le une dalle altre ed isolate dalle circostanze concrete, ma hanno un’universalità concreta ed esemplare: l’universale fantastico non ha la rigida univocità dei concetti astratti.

L’arte, comunque, non può riprodurre la natura poetica dei primi uomini, i quali credevano realmente nell’esistenza di Giove, mentre gli uomini della fase razionale, hanno il concetto di finzione artistica; l’arte può solo aiutarci a comprendere la dimensione irrazionale dell’umanità, che, in quanto tale, non può essere razionalizzata e quindi pienamente compresa.

La questione omerica: nella poesia omerica Vico vede una spontanea e naturale espressione della mentalità fantastica dei primitivi. Rifiutando la figura dell’Omero filosofo e sapiente che parla per allegorie artificiali, Vico sostiene che Omero sia un carattere poetico usato per far riferimento a due poemi che, creati dalla collettività, rappresentano una poesia popolare formatasi nei secoli e contengono testimonianze storiche sui primi tempi della Grecia.