Storicismo – Dilthey e Weber

Negli ultimi decenni dell’Ottocento, in Germania, si delineano due indirizzi filosofici, lo Storicismo ed il Neocriticismo, che rivendicavano l’autonomia e la specificità delle scienze dell’uomo, opponendosi alla tendenza positivista a porre come paradigma della scientificità le scienze naturali, ai cui metodi e procedimenti dovevano rifarsi le conoscenze riguardanti l’uomo (l’applicazione della teoria evoluzionista alla società aveva accentuato questa tendenza); Stuart Mil, ad esempio, nel suo Sistema di logica sosteneva che le scienze morali e quelle naturali si bastassero sulla stessa logica induttiva, negando loro una sostanziale differenza. Si presentò, perciò, la necessità di fondare o giustificare filosoficamente una distinzione tra le scienze della natura e quelle dello spirito, dove per spirito si intende tutto ciò che riguardano uomo. Questa distinzione rimanda non solo agli oggetti di quelle scienze, ma anche alle capacità soggettive degli scienziati, agli atteggiamenti del soggetto conoscente. Si tratta, quindi, di una differenza riguardante lo spirito umano e i modi di operare della soggettività. Determinare questa differenza inerente alla mente umana si presenta come un nuovo fine della filosofia. Sia lo storicismo che il neocriticismo riprendono l’impostazione kantiana della filosofia come riflessione critica sulle condizioni di possibilità della conoscenza, ma ne ampliano gli orizzonti inserendo tra le discipline scientifiche anche le materie umanistiche come storiografia, sociologia o diritto. Per Kant, l’unico mondo conoscibile era quello fenomenico, mentre l’ambito noumenico della ragione e della libertà umana non poteva essere oggetto della scienza, ma il progresso degli studi storici ed umanistici, portati avanti dalla scuola storica tedesca (fra gli esponenti il geografo Carl Ritter, lo storico Droysen ed il filologo Jakob Grimm) mostravano che anche i fenomeni umani rappresentavano una realtà razionalmente determinabile e degna di una scienza dotata di validità oggettiva. Questa rivoluzione nel campo delle scienze dello spirito portò ad una “critica della ragione storica”, come la definì Dilthey, così come la rivoluzione scientifica seicentesca può essere considerata un presupposto della critica kantiana della ragion pura.

* Confronto con Hegel: Hegel vedeva nella storia umana la manifestazione temporale dell’Assoluto; gli esponenti della scuola storica rifiutavano questa assolutizzazione e rivolgevano i propri interessi agli aspetti empirici ed individuali della storia concreta, ed analogamente i filosofi storicisti (oltre a Dilthey anche Georg Simmel e per alcuni aspetti Weber) si allontanavano dalla filosofia della storia hegeliana, sottolineando il carattere finito e relativo della singole epoche e l’impossibilità di trovare un senso ultimo e definitivo alla storia.

Wilhelm Dilthey

Dilthey (Biedrich 1833, Siusi 1911), uno dei maggiori esponenti dello storicismo tedesco, si impegnò a distinguere i due diversi tipi di scienza e di validità oggettiva, evidenziando la differenza non solo del loro oggetto, ma anche del loro metodo: le scienze naturali hanno un metodo ipotetico-deduttivo che Dilthey chiama Erklaren: poiché i fenomeni naturali sono esterni al soggetto conoscente, che può avere esperienza diretta soltanto dei singoli fenomeni, la loro connessione può essere stabilita solo per via ipotetica; il rapporto causale non risulta da un osservazione diretta, ma è un’ipotesi che consente di avanzare deduzioni da confermare sperimentalmente. Nelle scienze spirituali, invece, l’oggetto della conoscenza, essendo espressione della vita umana ed oggettivazione dello spirito umano, è interno al soggetto conoscente, non c’è eterogeneità tra soggetto e oggetto, “la vita incontra la vita”, perciò lo scienziato ha un accesso diretto non solo ai singoli fenomeni spirituali, ma anche alle loro connessioni, deve solo rivivere in se stesso ciò che osserva al di fuori; lo storico, ad esempio, si immedesima psicologicamente nei personaggi della storia e, attraverso l’immaginazione, riproduce le situazioni concrete ed individua i motivi psicologici che hanno condizionato il corso degli eventi. Grazie a questo metodo della comprensione i motivi dell’agire vengono direttamente intuiti e vissuti. Identificando l’esperienza vissuta (Erlebnis) con l’attività della coscienza, Dilthey cerca di comprendere il fenomeno della vita in modo originario e diretto, senza doverlo inserire negli schemi meccanicistici della fisica (questa esigenza era propria delle filosofie della vita otto-novecentesche).

Nell’Introduzione alle scienze dello spirito (1883) Dilthey considera, quindi, l’introspezione psicologica come il paradigma della comprensione della vita, ma in seguito mise in discussione questo presupposto soggettivistico di origine cartesiana (Descartes aveva definito l’interiorità psichica, la res cogitans, direttamente conoscibile) e con il saggio L’origine dell’ermeneutica (1900) sostituì alla psicologia l’interpretazione testuale o, più in generale, la decifrazione del significato dei segni. L’ermeneutica era usata dagli indovini per interpretare i segni divini, dai giudici per interpretare le leggi in modo da risolvere le controversie e dagli esegeti biblici, aveva, quindi, un’importanza sociale e contribuiva a rafforzare il vincolo fra l’individuo e la comunità. Più della psicologia, l’ermeneutica rappresenta il modello di come la vita incontri la vita, perché si svolge in una dimensione intersoggettiva, mentre nell’ introspezione psicologica l’individuo incontra solo sé stesso. Questa valorizzazione dell’ermeneutica si svilupperà nel Novecento spinta dall’esigenza di superare il soggettivismo.

Max Weber

Weber (Erfurt 1864, Monaco 1920) si è interessato a svariati temi, ha compiuto indagini storiche, economiche, sociologiche ed ha preso parte ai dibattiti politici con articoli e saggi. Si è inserito nella questione sulle scienze dello spirito chiedendosi quale fosse il senso della propria attività scientifica, una domanda che trova risposta nei Saggi di metodologia scientifica (1904-1917); i principi metodologici trovano applicazione nelle ricerche storico-sociologiche esposte nelle raccolte di saggi Sociologia della religione (1904-1918) ed Economia e società (1922).

SAGGI DI METODOLOGIA SCIENTIFICA: la riflessione sul metodo di Weber si svolge nel confronto con il neokantiano Rickert, con il quale condivide la tesi secondo cui la relazione al valore (la necessità di tener conto dei valori che motivano l’agire) è un aspetto centrale delle scienze dello spirito; ma Weber considera anche il rapporto tra scienza e valori, sottolinea il fatto che lo scienziato deve mantenere un atteggiamento avalutativo e del tutto neutrale e che tener conto dei valori non significa condividerli (per queste considerazioni si allontana dalla filosofia trascendentale di Rickert).

Nel saggio Il senso dell’”avalutatività” delle scienze sociologiche ed economiche (1917) Weber distingue nettamente i fatti dai valori e la conoscenza dall’azione: i fatti non devono essere soggetti a giudizi di valore che li definiscano eticamente giusti o meno, sono amorali; Huxley (1825-1895) sosteneva una tesi analoga per negare che dalla selezione naturale si potesse far derivare un etica sociale (come voleva Spencer) ed anche Hume (1711-1776) aveva segnalato l’arbitrarietà del passaggio dal piano descrittivo a quello prescrittivo, la fallacia naturalistica come la chiamerà Moore. Anche Weber rintraccia nella pretesa di fondare scientificamente l’etica, un errore di principio (la confusione del piano dei fatti con quello dei valori) ed inoltre invita a non snaturare l’attività conoscitiva facendone uno strumento a servizio della politica e della religione (un rischio che corrono soprattutto le scienze storico-sociali, data la loro vocazione pratica).

La separazione tra conoscenza e azione non esclude, comunque, che la teoria possa guidare la prassi, poiché le scienze storico-sociali hanno il compito di esercitare una critica dei valori che faccia chiarezza sui fondamenti alla base delle credenze condivise e che favorisca la consapevolezza delle scelte etiche.

Nei Saggi metodologici Weber cerca, inoltre, di conciliare i due tendenze contrastanti del proprio pensiero: l’aspirazione all’oggettività del sapere e il rifiuto di un fondamento di valore assoluto. Weber considera il valore, da un lato, come l’elemento costitutivo essenziale dell’oggetto della conoscenza e, dall’altro, come il risultato di una scelta personale, arbitraria e non giustificabile razionalmente: i valori non hanno origine nella coscienza trascendentale, come sostiene Rickert, ma sono molteplici e contrastanti, Weber parla di un politeismo dei valori. Le scienze storico-sociali hanno, quindi, un fondamento arbitrario: è infatti il soggetto conoscente che sceglie una certa parte della realtà come oggetto della sua indagine e la scelta è determinata dalla formazione, dagli interessi, dai valori personali, perciò, nonostante l’atteggiamento avalutativo, l’indagine rimane unilaterale e, tuttavia, può aspirare alla validità oggettiva. Weber non è un relativista, non afferma che tutte le scelte di valore si equivalgano e che da nessuna possa derivare l’oggettività conoscitiva.

Studi critici intorno alla logica delle scienze della cultura (1906): è il primo dei saggi metodologici e prende in esame il concetto di causalità. Mentre Dilthey distingueva la spiegazione causale dalla comprensione, per Weber il nesso causale opera sia nelle scienze naturali sia in quelle culturali, ma con caratteristiche diverse: mentre le cause fisiche sono generali, lo storico stabilisce le cause specifiche che hanno determinato i fenomeni empirici nella loro individualità e che quindi valgono solo in quelle determinate circostanze. Inoltre nella storia non ci sono nessi causali necessari ed anch’essi, come la scelta dell’argomento da trattare, dipendono dalla soggettività dello scienziato che, tra i vari momenti che concorrono a produrre un effetto, individua la causa adeguata mediante i giudizi di possibilità oggettiva, una sorta di esperimento mentale con il quale lo storico immagina cosa sarebbe accaduto se un fatto non si fosse verificato e conclude che quel fatto è indispensabile o superfluo, è una causa adeguata o accidentale. Non può comunque affermare che da A segue necessariamente B, ma solo che A è una condizione di B, perciò si parla di nesso condizionale. I giudizi di possibilità oggettiva sono astrazioni concettuali con un carattere generalizzante: i soggetti del giudizio non sono entità individuali e concrete, ma sono il risultato di una generalizzazione basata su casi analoghi, una sorta di induzione. Anche per questo Weber evidenzia la funzione dei saperi nomologici, quelle scienze come l’economia o la sociologia che, attraverso l’analisi statistica, accertano l’uniformità di comportamento e possono stabilire leggi generali che valgono per un gruppo sociale a prescindere dagli individui. I saperi nomologici forniscono alle scienze storico-sociali individualizzanti degli strumenti euristici che Weber chiama tipi ideali: si tratta di costruzioni ipotetiche che, confrontate con la realtà empirica individuale, guidano alla ricerca delle cause adeguate, offrono quindi un filo conduttore che orienti l’indagine nella molteplicità di dati empirici (esempi di tipi ideali sono i concetti di potere, capitalismo, Stato).

SOCIOLOGIA E RELIGIONE – ECONOMIA E SOCIETÀ: questi saggi ruotano intorno ad un particolare interesse scientifico, la genesi storica della razionalizzazione del mondo, che Weber considera il tratto caratteristico della civiltà occidentale. Questo processo comporta non solo l’abbandono delle credenze religiose riguardo all’esistenza di potenze irrazionali, ma anche la trasformazione di ogni aspetto della vita individuale e associata. L’esempio più importante di razionalizzazione è l’organizzazione capitalistica del lavoro, che Weber riconduce alla diffusione di un’etica religiosa del lavoro, quella calvinista. Questa tesi, esposta nel primo saggio di Sociologia della religione, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo (1904), avrà vasta risonanza nel ‘900. La mentalità religiosa calvinista diventa la causa adeguata dell’organizzazione razionale capitalista; non si tratta di due fenomeni eterogenei, poiché, per Weber, lo spirito del capitalismo è un tipo ideale, un insieme di caratteristiche mentali e comportamentali che porta alla razionalizzazione di tutti gli atti economici. Il calvinismo attribuisce un alto valore morale al lavoro, all’adempimento dei doveri professionali e, in generale, alla condotta razionale della vita; l’etica della professione e della dedizione deve, perciò, aver causato l’affermarsi del modo di vita razionalizzato che caratterizza il capitalismo moderno; ciò si comprende anche pensando alla nozione dell’ascesi intramondana: si ascende a Dio compiendo il proprio dovere sulla terra e il successo è il segno del favore di Dio e quindi della predestinazione alla beatitudine.

In Economia e società (1922) Weber studia il fenomeno del potere che, per essere tale, deve basarsi sul consenso e sull’ obbedienza volontaria. Perché ciò avvenga è necessario che i governanti siano dotati di un’autorità che li renda legittimi agli occhi dei governati. Weber distingue 3 tipi di autorità:

  1. L’autorità razionale viene accettata da governati che credono nella legalità delle istituzioni e del diritto a governare di chi le rappresenta; presuppone, quindi, un ordinamento giuridico ed un apparato amministrativo.
  2. L’autorità tradizionale viene accatta da governati che credono nella sacralità delle istituzioni e di chi le rappresenta; presuppone l’esistenza di una tradizione che legittimi, ad esempio, il principio dinastico.
  3. L’autorità carismatica è quella propria del leader capace di radunare gruppi di seguaci che gli riconoscono qualità straordinarie; non si basa quindi né sulla tradizione, né sulla razionalità o legalità. Weber vide in questo potere un possibile rimedio alla crisi politica del suo tempo, che avrebbe fatto decadere la legittimità delle istituzioni politiche liberali, portando alla dittatura in Germania, Spagna ed Italia (di cui Weber non poté fare esperienza, morendo nel ’20): il fenomeno di razionalizzazione del mondo, infatti, avrebbe sciolto il legame con la tradizione ed indebolito il potere delle istituzioni.

* Confronto con Marx: Marx aveva inserito i fenomeni religiosi in quella sovrastruttura ideologica determinata dalla struttura dei fenomeni economico-materiali. Weber, più che invertire l’ordine di questa relazione, assegnando il primato alla sfera spirituale, contesta la pretesa di assumere un qualunque fattore storico come causa determinante assoluta. Avvicinandosi invece al pensiero di Marx, Weber critica le contraddizioni del capitalismo, in particolare il fatto che, pur risultando dalla razionalizzazione del mondo, dà luogo a forme di vita irrazionali. In Economia e società Weber distingue 2 tipi di razionalità:

  1. quella formale o tecnico-strumentale consiste nell’agire razionale rispetto allo scopo, perciò è razionale ciò che è adeguato a raggiungere un fine.
  2. quella materiale consiste nell’agire razionale rispetto al valore, perciò si fonda sulla fede nel valore assoluto di un’idea.

La razionalità capitalistica è meramente tecnico-strumentale ed indifferente ai valori, ma alla sua origine c’è la razionalità dell’etica calvinista; venuto meno lo spirito dell’ascesi intramondana, che conferiva una razionalità materiale ai processi economici, la razionalizzazione capitalista si è trasformata in un meccanismo, definito nel saggio Etica protestante, una gabbia d’acciaio, che determina lo stile di vita di ogni individuo; la vita associata viene rigidamente ordinata all’interno di strutture burocratico-amministrative, nelle quali gli spazzi di libertà si restringono. L’irrazionalità sta nel fatto che la razionalità strumentale tende a diventare fine a sé stessa e cessa di essere uno strumento per conseguire fini liberamente posti dall’uomo. Le istituzioni razionalizzate perdono il loro scopo originario e, anziché servire l’uomo, mettono l’uomo al loro servizio. Anche Marx aveva messo in rilievo la trasformazione del mezzo in fine: la produzione subordina l’operaio. Marx vide nella rivoluzione proletaria la soluzione all’alienazione, il modo in cui il lavoratore si sarebbe riappropriato della propria essenza, mentre Weber tende a vedere un destino tragico e non indica possibili uscite dalla gabbia d’acciaio.