Thomas Hobbes – la libertà, la necessità e il Leviatano

ARGOMENTI: Hobbes, vita e opere, De corpore, De homine, Libertà e necessità, De cive, Il leviatano, confronto con Cartesio.

VITA E OPERE: Hobbes nacque a Malmesbury nel 1588, e secondo la tradizione la madre venne presa dalle doglie per il timore dell’invasione di Filippo II di Spagna, perciò Hobbes si definiva “figlio della paura”. Studiò al Magdalen Hall di Oxford fino al 1608, quando divenne precettore di William Cavendish, alla cui famiglia aristocratica rimase legato per tutta la vita e con la quale compì il primo di una serie di viaggi che lo misero in contatto con l’ambiente culturale europeo. I suoi primi interessi erano per lo più umanistici, come testimonia la sua traduzione della Guerra del Peloponneso di Tucidide; gli interessi scientifici si svilupparono negli anni Trenta, quando si avvicinò alle nuove ricerche di orientamento galileiano.

Nel 1640 Hobbes concluse la sua prima opera sistematica di filosofia, gli Elementi di legge naturale e politica, e si trasferì a Parigi per sfuggire alla guerra civile; in Francia entrò in contatto con il circolo intellettuale sorto intorno alla figura di Mersenne e compose le Obiezioni alle Meditazioni di Cartesio (1641), il De cive (1642), che, pubblicato anonimo, suscitò vaste polemiche e Libertà e necessità del 1645; l’anno dopo la corte inglese si trasferì a Parigi e Hobbes divenne insegnante di matematica del futuro Carlo II.

Nel 1651 Hobbes, tornato a Londra, pubblicò il Leviatano che gli procurò le accuse di eresia e blasfemia, dalle quali si difese in molti trattati teologici, tra cui Questioni intorno alla libertà, alla necessità e al caso (1656), nel quale ritorna sui temi di Libertà e necessità e sulla polemica intrattenuta con il vescovo John Bramhall, un difensore della tradizione scolastica. Nel 1655 uscì il De corpore e nel ’58 il De Homine, prima e seconda sezione degli Elementi di filosofia. Scrisse anche un’opera storica sulle cause della guerra civile inglese Behemoth, o il lungo parlamento (1668), che, come altre opere, non poté pubblicare.

Negli ultimi anni Hobbes tornò agli interessi classici e tradusse in inglese l’Iliade e l’Odissea; si ritirò nelle residenze dei Cavendish e morì ad Hardwick nel 1679.

DE CORPORE (1655): è la prima sezione degli Elementi di filosofia (seguita dal De Homine, del ‘58, e dal De cive, del ‘42) ed espone compitamente la filosofia naturale di Hobbes, già abbozzata nel Breve trattato sui principi primi (1631), negli Elementi di legge naturale e politica e nelle Obiezioni alle Meditazioni di Cartesio. L’intento di Hobbes è fondare sistematicamente una visione materialistica e meccanicistica della realtà naturale, accogliendo le influenze del pensiero di Galilei, Pierre Gassendi e Marin Mersenne, citati della prefazione dell’opera.

Hobbes considera la filosofia come la conoscenza razionale acquisita attraverso il calcolo degli effetti e delle cause (non quelle finali della scolastica, ma le cause efficienti dei fenomeni). Questa conoscenza non può basarsi sulle idee innate sostenute da Descartes, ma parte dalla sensazione ed attraverso la ragione, intesa come uno strumento di calcolo, ordina i dati sensibili. Calcolo significa, per Hobbes, addizione e sottrazione di nomi e definizioni con cui vengono composti concetti, proposizioni, sillogismi; le operazioni matematiche vengono, quindi, estese all’ambito logico ed a quello etico-politico. La ragione è un’attività formale che, per i contenuti, dipende dalla sensazione e che riguarda i concetti, non più le cose in sé, le essenze indagate dalla tradizione aristotelica.

I principi primi esplicativi di tutta la realtà si riducono a due, corpo e movimento: ogni fenomeno naturale è movimento di corpi e le entità corporee non rientrano nella conoscenza scientifica che, secondo l’ideale galileiano, è rigorosamente deduttiva, fondata su pochi postulati, da cui si deducono conclusioni dimostrate. Anche Dio e l’anima umana sono corporee; le attività mentali, spiegate come movimenti di alcune parti del corpo organico, non sono autonome dalla materia estesa. Le leggi del movimento governano tutta la realtà corporea, perciò il pensiero hobbesiano è materialista e meccanicista, ma risente anche di un orientamento nominalista e convenzionalista: rifacendosi a Guglielmo da Ockham (XIV sec.), Hobbes considera i nomi segni convenzionali usati da un gruppo di individui al fine di stabilire una corrispondenza arbitraria tra parole e fenomeni. Dato che tra parole e cose non c’è una corrispondenza ontologica, la verità e la falsità sono attributi solo delle prime; la verità consiste, non nella correlazione tra il concetto e la cosa, ma nella correttezza della concatenazione e dell’ordine dei nomi all’interno delle proposizioni. L’istituzione dei nomi rende possibile la scienza, in quanto permette di fare un discorso razionale che, attraverso il calcolo, stabilisca rapporti tra i contenuti mentali. Il linguaggio ha, però, una caratteristica negativa: è la causa della maggiore capacità di errare dell’uomo rispetto agli animali, dal momento che l’uomo può servirsi di affermazioni e regole false e trasmetterle agli altri.

L’uomo ha una conoscenza certa ed esatta solo di ciò di cui è la causa, la scienza riguarda, quindi, solo la realtà artificiale, mentre quella naturale può essere oggetto di una conoscenza solo ipotetica e condizionale. Matematica, etica e politica sono, quindi, le vere scienze: i loro oggetti, in quanto creati dall’uomo, sono scomponibili fino a giungere ai principi primi (troviamo una tesi analoga in Giambattista Vico).

Il fine ultimo del sapere consiste nel prevedere gli effetti a vantaggio della vita umana, produrre beni, migliorare le condizioni ed accrescere la potenza dell’uomo. Dunque anche Hobbes fa proprio il motto “sapere è potere” (che ricorre nei sostenitori della rivoluzione scientifica, ma anche nella tradizione magica), e contribuisce alla rivalutazione dei fini pratici ed all’interpretazione utilitaristica della filosofia (Vedi Rivalutazione arti meccaniche in Bacone).


Contro Cartesio: Già la 1° edizione delle Meditazioni comprendeva in appendice una serie di obiezioni rivolte a Cartesio e raccolte da Mersenne. Le Terze obiezioni erano quelle di Hobbes che contestava il dualismo di res cogitans e res extensa, le idee innate e la possibilità di dimostrare razionalmente Dio. Ammettendo solo la sostanza corporea, Hobbes criticava quella pensante e considerava il passaggio dal cogito al riconoscimento della res cogitans come una deduzione erronea; il suo discorso viene così esemplificato: se dall’essere una cosa pensante Cartesio inferisce di essere pensiero, dall’essere passeggiante si può inferire di essere una passeggiata, il che è assurdo. Riguardo alle altre obiezioni, Hobbes osserva che solo se si riconosce che le idee derivano dall’esperienza, si può affermare che corrispondono a ciò che esiste nella realtà, perciò Dio, e in generale tutto ciò che non viene trasmesso dai sensi, può essere solo probabile e non certo, né oggetto di dimostrazioni razionali.


DE HOMINE (1658): l’uomo viene inserito nell’universo meccanicistico, caratterizzato dal nesso causale e dalla totale determinazione degli eventi, senza che le sue azioni volontarie rappresentino un’eccezione. Infatti, la mente umana ha una facoltà anteriore al linguaggio, il pensare casuale, che permette di considerare i fenomeni come cause di possibili effetti. A differenza dell’animale, l’uomo stabilisce rapporti causali e si preoccupa del futuro, e questa preoccupazione conduce alla ricerca metodica delle cause.

LIBERTÀ E NECESSITÀ (1645): Hobbes si chiede se la volontà dipenda dalla libertà o dalla necessità, se gli atti volontari siano effettivamente liberi o determinati da cause precedenti necessarie e conclude che la libertà si riduce all’assenza di impedimenti e che le azioni ritenute libere sono in realtà necessitate da elementi causali indipendenti dalla volontà, come l’interesse o le considerazioni del bene o del male. La volontà viene ritenuta contingente e slegata dalle cause necessarie per l’insufficienza della ragione umana; in realtà qualunque azione viene compiuta se, e solo se, esistono tutte le cause che concorrono necessariamente al suo compimento. 

Anche le passioni e le emozioni sono reazioni necessarie provocate dalle sensazioni che riceviamo dal mondo esterno, e rispondono alle leggi meccaniche; inoltre sono utili a distinguere il bene, ciò che viene desiderato, dal male, ciò che viene rifiutato, e questi valori non sono assoluti, dipendono dalla soggettività, dal criterio del piacere che varia negli individui; questa concezione richiama l’epicureismo (per l’etica edonistica) che stava venendo rivalutato da Gassendi. Il giuso e l’ingiusto sono convenzioni, tuttavia esiste un sommo male, la morte violenta, ritenuta universalmente negativa.

DE CIVE (1642): Hobbes esclude che l’uomo sia un animale sociale e politico per natura, come voleva la tradizione aristotelica, e sostiene la sua celebre affermazione homo homini lupus: la condizione naturale dell’uomo non è la dimensione sociale, ricercata solo per i vantaggi che offre, ma quello che Hobbes chiama stato di natura, una situazione conflittuale che precede l’istituzione del potere comune, nel quale gli uomini vivono isolati e cercano di difendersi dalle aggressioni altrui, tutelando il proprio bene primario, l’autoconservazione, e di sopraffare gli alti per spezzare la loro naturale  uguaglianza ed appagare il desiderio di gloria, di vedersi riconosciuti dagli altri come superiori. Ne consegue una guerra di tutti contro tutti, nella quale la vanità è la passione che conduce più frequentemente al conflitto ed al rischio di perdere la vita, mentre nella società essa può essere stabilmente soddisfatta attraverso attività competitive che non comportino la morte. Hobbes conclude quindi che l’amore di sé e la ricerca dell’utile e della sicurezza personale inducono la ragione naturale a fondare la società politica attraverso un contratto volontario, il patto di unione, per il quale i contraenti trasferiscono i loro diritti naturali, tranne quello dell’autoconservazione, ad una persona artificiale sovrano-rappresentativa, lo stato civile, in grado di far rispettare la legge naturale. Il diritto naturale di autoconservarsi ed appagare i propri desideri, non assicura la sopravvivenza di ciascuno, e viene perciò sostituito dalla legge che prescrive di proteggere la propria vita cercando la pace e rinunciando a quei diritti naturali che causano il conflitto. Nel Leviatano Hobbes elenca 19 leggi naturali (ad esempio mantenere i patti o perdonare le offese) ma tutte dipendono dalla prima, cercare la pace.

* Ovviamente lo stato di natura è un’astrazione del pensiero, che prova ad immaginare in quale stato verserebbero gli uomini se non ci fosse un’autorità suprema in grado di tutelare la vita degli individui. Anche il patto di unione non è un evento storico ma è un argomento usato da Hobbes, ed in generale dalla corrente giusnaturalista, per giustificare la legittimità dello Stato. Se il fondamento dello Stato sta nel consenso degli individui, tutti uguali fra loro, allora decadono le giustificazioni tradizionali che facevano appello all’investitura divina o alla superiorità di una famiglia.

IL LEVIATANO: pubblicato in inglese nel 1651, al ritorno dal soggiorno parigino, il Leviatano è, insieme al De Cive, un’opera rappresentativa per la filosofia politica di Hobbes. Lo Stato viene paragonato al mostro biblico per la sua forza irresistite e presentato come una persona artificiale o civile, in quanto creato dagli uomini con il patto di unione, rappresentativa, in quanto costituisce l’unità dello stato (il trasferimento dei diritti naturali dei singoli alla persona civile genera una nuova volontà pubblica, autonoma ed indipendente dalla singole volontà, quindi la rappresentazione non è intesa come un rispecchiamento o un’interpretazione della volontà dei rappresentati, ma consiste nella creazione di una volontà diversa, l’unica legittima) e sovrana, in quanto detiene la sovranità, la quale si caratterizza per l’assolutezza, l’irresistibilità e l’indivisibilità.

Il potere è:

  • assoluto, in quanto legibus solutus; lo stato, che sia monarchico, aristocratico o democratico, non è sottoposto alle leggi civili, ma risponde soltanto alle leggi naturali (nessuna autorità, tuttavia, può vincolarlo al rispetto di esse).
  • irresistibile, poiché l’individuo, avendo ceduto i suoi diritti naturali, non può opporsi e fare resistenza allo Stato né di fatto, per l’evidente sproporzione delle forze, né di diritto, poiché legittimamente detiene solo il diritto all’autoconservazione.
  • indivisibile, poiché il sovrano detiene tutti i poteri (legislativo, esecutivo e giudiziario) che non possono essere divisi senza mettere a rischio la stabilità e la pace. Questo è il principale motivo che distingue Hobbes dalla tradizione liberale che teorizzava la separazione dei poteri, una tesi formulata nel secondo trattato sul governo di Locke, per poi essere sistematicamente strutturata dal Montesquieu nel ‘700.

Hobbes considera anche i rischi di dissoluzione dello Stato, ossia le aggressioni esterne (perciò la difesa deve essere la prima preoccupazione) e le rivoluzioni e sedizioni; queste possono essere causate da 2 fattori:

  • la rivendicazione di autonomia decisionale da parte dei singoli cittadini;
  • la presenza di diverse fonti di pubblica autorità.

Nel primo caso il giusto e l’ingiusto tornano ad essere valori soggettivi, basati su istanze e criteri personali, la legge perde autorevolezza ed uno Stato che la imponga con la forza è destinato a decadere. Il secondo caso si verifica quando Stato e Chiesa sono autorità sovrane indipendenti; Hobbes immagina, quindi, uno stato civile ed ecclesiastico insieme, dove il sovrano è anche il primo ministro della Chiesa e l’unico che possa legiferare: la legge civile deve essere l’unica guida delle azioni, anche in campo religioso. Hobbes critica la separazione tra temporale e spirituale e la pretesa superiorità di quest’ultimo, ed osserva che gli individui non possono legittimamente stipulare due diversi contratti sociali; in questo caso dovrebbero obbedire a due diversi sovrani e ne scaturirebbe la guerra civile.

Hobbes cerca di giustificare i suoi argomenti facendo appello alla storia biblica e si impegna in una lunga analisi delle Sacre Scritture. Analizzando, inoltre, il concetto ecclesia, sostiene che il potere ecclesiastico riguardi solo la funzione dell’insegnamento evangelico e che sia privo dei tre poteri raccolti nella persona sovrano -rappresentativa. Il sovrano deve essere l’interprete ufficiale della dottrina cristiana: la vera religione è solo quella civile. In questo modo Hobbes cerca di difendere la stabilità dello Stato da quei profeti che, all’epoca, circolavano per l’Europa e, sostenendo di essere direttamente ispirati dalla parola divina, fomentavano rivolte popolari.