Robert Hertz – la rappresentazione collettiva della morte e il destrismo

Robert Hertz (1882-1915) contribuì a quella riflessione etno-sociologica che si sviluppò sulla scia dell’opera di Durkheim e che mirava, in generale, alla descrizione delle rappresentazioni collettive della realtà sociale e naturale, e di conseguenza alla comprensione delle ragioni nascoste dei fenomeni sociali. Hertz morì prematuramente nella prima guerra mondiale, ma lasciò due importanti opere:
Contributo alla rappresentazione collettiva della morte (1907): la prima studia quella necessità umana, nata forse da quando l’uomo ha cominciato a prendere coscienza di sé, di dare significato alla morte. Questa fonte di angoscia non riguardava solo l’individuo, ma l’intero gruppo sociale. Hertz osservò che la rappresentazione collettiva della morte rientra nei meccanismi attraverso cui una società mantiene la propria identità e coesione. La morte, infatti, non mette fine solo a un’esistenza corporea, ma anche a un’esistenza sociale, spezza il legame fra l’individuo e il gruppo, e più l’individuo è importante per il gruppo, più la sua morte minaccia la coesione sociale (abbiamo visto con Frazer che il re deve essere eliminato e sostituito non appena si indebolisce, perché personifica il corpo sociale, mentre, osserva Hertz, la morte, ad esempio di un bambino, passa inosservata). La società cerca, quindi, di ristabilire l’equilibrio alterato dalla scomparsa di un membro attraverso i riti funebri, che rientrano fra i riti di passaggio. La loro funzione è, infatti, quella di razionalizzare o di portare sul piano culturale, la transizione del defunto dalla comunità dei vivi a quella dei morti (Hertz giunse a questa conclusione osservando che alcune popolazioni del Borneo mettevano in pratica un doppio rito funebre). Rappresentando ritualmente il passaggio da una comunità a un’altra, la società culturalizza la morte, che non rimane solo un fenomeno naturale, ma diventa un fenomeno sociale, e in più si proietta in un ordine eterno. La continuità fra le due comunità rimanda anche alla credenza nella vita ultraterrena. In questo modo la minaccia della morte viene scongiurata a livello sia individuale che sociale.
La preminenza della mano destra. Studio sulla polarità religiosa (1909): in questa seconda opera Hertz ipotizza che l’universale culturale del destrismo sia una vera e propria istituzione sociale spiegabile in termini di rappresentazioni collettive. Tutte le società ricollegano la destra al positivo e la sinistra al negativo, come emerge anche a livello linguistico (la destrezza, ad esempio, è favorevole, il sinistro è sfavorevole). Questa distinzione rimanda, secondo Hertz, all’opposizione fra sacro e profano, due dimensioni che pervadevano la vita delle società semplici, le quali cercavano di ordinare il mondo secondo un principio bipolare, ispirato anche dai lati del corpo. La dicotomia fra destra e sinistra si spiegherebbe quindi tenendo conto della necessità umana di ordinare la realtà in base ad un asse morale principale, quello fra bene e male. Poi si ipotizza che una predisposizione al destrismo abbia fatto sì che si affermasse un controllo istituzionale volto a reprimere l’uso della sinistra, che simboleggiava il male, il lato negativo del mondo.